La grazia dell’Avvento

di Don Pasquale Pio Di Fiore

Non ho mai fatto mistero a nessuno del mio interesse per le etimologie, per l’arte di scavare dentro al mistero delle parole al fine di rubarne l’idea che le ha generate, di capirne la mens che le ha prodotte. La parola esprime la volontà di una comunicazione, in un senso o nell’altro. Quando mancano le parole si ha la sensazione che al discorso manchi il fiato e che si possa cadere da un momento all’altro in una situazione di disagio imbarazzante. Avere ed essere legittimati a dire una parola è quindi fondamentale per una vita di relazione che voglia definirsi matura.

Dio è questa comunicazione di vita, così lo conosciamo dalla Genesi: è parola potente che genera dal nulla tutte le cose e rende partecipe l’uomo della sua natura proprio nella possibilità di poter proferire parole. L’umanità fa da interlocutore privilegiata della divinità, sta in piedi davanti a Dio e con Lui parla. In questa facoltà di parlare, bella ma tante volte pericolosa, sta la grandezza della sua dignità e la ricchezza della sua libertà. Il Signore concede sempre udienza all’uomo che gli vuole parlare e lo fa anche dopo che quell’uomo pecca e si allontana dal suo amore.

Con la parola l’uomo esprime il suo assenso o il suo rifiuto alla proposta di Dio. Ecco che la parola contiene in sé un lato drammatico: pone la persona davanti ad una scelta, di fronte ad un bivio che sollecita una presa di posizione da cui non si può fuggire. Si deve rispondere sì o no. Quando si risponde positivamente, si realizza la vocazione; quando invece si oppone un rifiuto, proprio perché egli “rimane fedele perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2, 13), il Signore continua ostinatamente ad andare incontro a tutti perché quelli che lo cercano lo possano trovare. Lo si riesce a trovare in ciò che lo rende più accessibile, nella sua Parola alla quale si deve porre attenzione, accortezza appunto.

E la sua Parola, il suo giudizio definitivo sul mondo, è la vita di suo Figlio, che la tradizione dei Padri della Chiesa ha definito Verbum abbreviatum[1]. In prossimità del Natale, Bernardo di Chiaravalle predicava che «Dio Padre ha abbreviato il suo Verbo. Volete sapere quanto era lungo e quanto lo ha fatto breve? Questo Verbo dice: io riempio il cielo e la terra; ora, fatto carne, è deposto in una stretta mangiatoia». Quella stessa Parola che ha spinto la creazione alla sua nascita si è accorciata, ha scelto di raccogliersi nei limiti dello spazio e del tempo, di restringersi nelle maglie della carne.

Alle porte dell’Avvento mi imbatto in una espressione colorita, particolarmente presente nel vocabolario del Meridione d’Italia: “accorto”. “Sta’ accorto!” è la tipica raccomandazione che si rivolge alle persone care, consigliando vivamente loro di guardarsi bene attorno e di evitare le distrazioni. Il tempo che la Chiesa ci fa vivere come preparazione alla festa dell’Incarnazione del Verbo è allora il tempo dell’accortezza, il momento in cui possiamo fermarci con attenzione sulle cose cercando di intuirne il passaggio del Signore che passa e non si sa se ritorni[2]. L’Avvento è il momento giusto per fare un esame di coscienza un po’ più prolungato, sforzandoci di considerare il nostro vissuto al netto della misericordia di Dio che pur aspetta sempre il nostro ritorno. È l’esercizio per lo Sposo che tarda ad arrivare. Aspettiamo anche noi l’incontro risolutore della nostra vita, quello con il Signore che concede pienezza di senso al nostro vivere. Ma ancora una volta, il desiderio di Dio che si accorge di noi e della nostra necessità di salvezza si scontra con i limiti della nostra umanità: siamo veramente pronti a sostenere la forza di questo incontro? Siamo seriamente disposti a giocarci tutto per entrare anche noi, meno gravati di zavorre inutili, alla festa di nozze che attende la nostra presenza?

Ci è dato ancora di convertirci, di ritornare al Signore con tutto il cuore (cf. Gl 2, 12) non tanto con digiuni e lamenti ma con una santa prontezza che ci fa mettere il primo passo incontro a Lui. Col procedere sempre più in avanti sentiremo crescere in noi un senso di meraviglia di fronte al mistero di un Dio che fa Avvento anche Lui, che bussa alle nostre porte e si aspetta che noi gli apriamo e gli prestiamo ascolto, facendo tacere per un attimo le nostre parole. Verbo crescente, verba diminuitur[3]: all’affermarsi del Verbo, vengono meno le parole. Perché questo fa il Signore che passa: fa fiorire i sentimenti del cuore, guarisce le infedeltà, fa venire fuori la verità di chi siamo. Questa è la grazia di ogni Avvento, il miracolo di ogni attesa.

 

[1] Origene, Peri Archon, I, 2, 8: SC 252, pp. 127-129
[2] Agostino, Sermo 88
[3] Idem, Sermo 288,5: PL 38,1307.