Viviamo questi giorni di solitudine come un dono in cui abitare

di Don Pasquale Pio Di Fiore

È diventata ormai celebre la capacità di Papa Francesco di coniare, con una sorprendente spontaneità, neologismi che sommano la sostanza della fede e la sapienza pastorale ad un parlare vicino, quotidiano, spontaneo, nella scia di quell’”aggiornamento” di cui si è sempre invocato l’esercizio ma che poi è sempre sfuggito di mano. Non è la smania di ricerca di vocaboli innovativi che facciano presa sulla fantasia delle persone, ma è sincero sforzo di prendere da un tesoro cose antiche, per renderle sempre nuove grazie ad un uso sapienziale della parola.

È l’espressione viva di una teologia comprensibile, che fa esperienza e cammina tra gli uomini per poi arrivare a Dio, come suggeriva Agostino: un discorso aperto a tutti perché aperto a tutti è il grembo di Dio. Sì, perché ogni discorso su di Lui o viene condotto con questo stile popolare o perde la sua ragion d’essere: se la teologia diventa solo esercizio speculativo senza mordente sulla storia, se non emerge dal vissuto della gente nel quale continua ad incarnarsi il Signore, difficilmente può cambiare la prospettiva sulle cose.

 E in questi giorni di precarietà innescati dalla pandemia globale, la storia sollecita la Chiesa (e le Chiese) a trovare forme nuove di presenza sul territorio e a riscoprirne altre, date per scontate o troppo spesso boicottate nel marasma del nostro caos quotidiano. Si va in cerca di un nuovo modo di “ecclesiare”, di essere e fare Chiesa, di esercitare creativamente la propria cittadinanza politica ed ecclesiale in un contesto nuovo, diverso, dove niente è come prima e da cui si spera di non uscirne indenni in termini di umanità. Niente sarà più come prima: è scontato e lo si sente ripetere da ogni parte. E non può che essere così perché la storia lascia sempre un segno più o meno profondo su chi ne vive i contraccolpi. Niente sarà più come prima, nella Chiesa e nel mondo, nella politica e nell’economia: non è solo la fisicità degli uomini ad essere vulnerabile al contagio del virus ma anche il loro spirito, insieme ai loro modi di impostare pensieri e vita pur mantenendo ferme le proprie radici. È lo scotto abbastanza alto da pagare alla storicità di cui siamo fatti: “La storicità dell’uomo non è una parola vana. Esiste una storicità del cristiano…noi non possiamo rifugiarci a nostro piacimento in un’epoca diversa dalla nostra. Non possiamo eluderne i problemi, sottrarci alle sue iniziative, fuggire le sue lotte. Se viviamo nella Chiesa, è alle preoccupazioni della Chiesa di oggi che noi dobbiamo prendere parte. Quando si rifiutano fiori e frutti, il ramo al quale ci illudiamo ancora di aderire non è più che un ramo secco[1].

E questa storicità non deve far paura. Di fronte ad essa non si può scappare e nemmeno si può pretendere di ammainare le vele del pensiero riaprendole alla prima occasione favorevole. Come cristiani siamo chiamati a fare discernimento, ad interpretare – alla luce del Vangelo – questi segni dei nostri tempi così nevrotici che impegnano in maniera diversa le nostre energie fisiche e spirituali. “Quando si fa sera voi dite: Bel tempo perché il cielo rosseggia…Sapete interpretare l’aspetto del cielo, come mai non sapete giudicare i segni dei tempi?” (Lc 12,56).

Siamo chiamati, per lo più, ad un innovativo esercizio di Chiesa, ad un sentirci convocati dallo Spirito seppur con modalità diverse, con gli strumenti più disparati e questo per non smarrire la nostra volontà di continuare ad essere popolo nel chiaroscuro di un contesto radicalmente stravolto – benché provvisorio – rispetto a quello che si viveva fino a ieri.

Ma possiamo effettivamente continuare ad interpretarci come “popolo” in questa congiuntura storica? Del popolo abbiamo perso l’aggregazione celebrativa, il mordente dello stare insieme, la possibilità di camminare uniti verso la meta della nostra fede. Ognuno è bloccato a casa sua, senza vie d’uscita se non per qualche occasionale necessità.

Non si è persa però la tensione profonda verso la santità: i cristiani, come meglio possono, vivono il loro “culto logico” (Rm 12,1) nelle proprie abitazioni, un modo “adattato” di celebrare la fede e di santificare con gli strumenti a loro disposizione questo tempo di assenza dalla comunità.

È proprio la tensione comune alla santità che in questo tempo ci permette di riscoprirci, più che come popolo, come nazione. Siamo pressoché abituati a sentirci definire “popolo” e tale veramente eravamo fino a quando la storia non ha voluto quasi mettere in stand-by il suo corso. La Scrittura però riferisce ad Israele (Es 19,6), e quindi al nuovo gruppo dei credenti in Gesù, anche la qualifica di “nazione” (1Pt 2,9) che sembra avere un’estensione più vasta: mentre il popolo si definisce in rapporto alla cittadinanza e al territorio di uno Stato, la nazione sembra scavalcare addirittura il limite territoriale per diventare qualcosa di più ampio. “Nazione” è la comunanza di lingua, di cultura, di fede, di tradizione che riunisce più individui anche separati tra loro; è condivisione nella lontananza di una storia di cui ci si sente parte attiva.

“Nazione” è un concetto che descrive molto bene lo stato attuale delle cose, in cui ci si sente tutti un po’ dispersi. Tuttavia, anche in questa dispersione, si anela all’unità: cresce il desiderio di recuperare legami spezzati, di pregare insieme, di sintonizzarci con quanti soffrono la nostra stessa condizione. “E’ un miracolo della bontà di Dio quello di far sentire solidali nella celebrazione e fondere nell’unità della fede lontani e vicini, presenti e assenti”[2]: per questo bisogna ringraziare.

Prolificano le iniziative di incontro e gli scambi di esperienze. Tutto questo è positivo perché il distacco forzato che stiamo vivendo sprigiona un potenziale di creatività finora sopito. È in atto un movimento di “tensione creativa”[3]: come le corde di una chitarra abbiamo bisogno di tensione per vibrare e produrre un suono. La tensione quindi non è sempre distruttiva se ci porta a liberare energie che ci spingono verso l’unità e la comunione propria dei santi.

In queste lunghe quarantene la famiglia sta riacquistando la sua missione di educatrice alla fede: è tra le mura domestiche che i coniugi si ritrovano per una preghiera recitata insieme ai figli e che riprendono a farsi sentire le litanie soffocate dalla fretta. L’intimità delle proprie coscienze diventa il santuario in cui Dio continua a parlare riempiendo il silenzio delle strade e delle piazze. Per tanto tempo, in molti progetti pastorali, ci si è lamentati del fatto che le famiglie non avessero più opportunità né tempo per esercitare il proprio ministero educativo.

Ora sembra essere arrivato (o pare esserci stato imposto) il tempo per farlo: nelle piccole chiese dislocate che sono le famiglie ora si cerca di approfondire il senso della propria fede e di ispessire la tenuta della propria vita di relazione. Stiamo vivendo il tempo opportuno in cui ci è dato di far decantare i semi del Vangelo sparsi nel cuore; è il tempo della sposa attirata nel deserto per sentirsi sussurrare da Dio parole di presenza e di conforto (cf. Os 2).

Stiamo dunque contando giorni di opportunità da non sciupare. Tuttavia assistiamo di contro ad un moltiplicarsi di proposte che se da un lato vogliono assicurare una certa continuità alle attività sociali e alla pastorale delle parrocchie, dall’altro rischiano di riempire di troppo rumore un tempo consacrato di per sé al silenzio. La convivenza forzata con la solitudine pesa, terrorizza e la si vuole evitare. Si va spasmodicamente alla ricerca di soluzioni accomodanti e a buon mercato che vestono piuttosto i panni di fughe dal reale, perché effettivamente consideriamo “problema” il tempo che attraversiamo. Potremmo però provare a cambiare prospettiva, a vivere i nostri giorni di latitanza sociale non come un’assoluta privazione, ma come un dono in cui abitare, senza per forza volerne uscire fuori prima del loro compimento. Voler tornare indietro ad una situazione di normalità che dà sicurezza in un momento in cui non ci è permesso pare essere una grande forzatura della storia. I cristiani (e tutte le persone di buona volontà), da portatori sani di speranza, sono chiamati a chiedersi se il distacco che stanno vivendo sia veramente un dramma in cerca di soluzione o piuttosto un’opportunità di conversione ad una vita più limpida e coerente, a rileggere la propria vita quietando la propria anima davanti a Dio[4]. Il compito della teologia e della pastorale della Chiesa non è quello di dare soluzioni (il mistero di Dio non può essere “soluto”, sciolto…) ma è quello di rivolgere uno sguardo illuminato sul kronos, sul tempo lineare, interpretato dal Vangelo perché diventi kairos, passaggio di grazia nel grande silenzio. Questa fase storica smaschera l’idolo dell’attivismo a cui spesso prestiamo culto e ci aiuta ad entrare nella logica secondo la quale le cose più belle e più importanti della vita si conservano nel silenzio e si disperdono nella fretta. Ci vuole grande equilibrio nel dosare presenza e assenza, consolazione e mancanza. Ci vuole coraggio nel dare fiato a questa moderna Chiesa del silenzio, che soffre ma che è viva. Chi ci riesce è veramente maturo.

“Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 49,19).

[1] H. De Lubac, Meditazione sulla Chiesa, La Civiltà Cattolica-Corriere della Sera, Milano 2014, (La biblioteca di Papa Francesco, 7).
[2] Atanasio, Lettere pasquali, lett. 5,2.
[3] L’espressione è del Card. Joseph Tobin, Arcivescovo di Newark (NJ)
[4] Cf. Carlo Maria Martini, Il sole dentro. Le nostre fragilità e la forza di Dio. Il combattimento spirituale, Piemme, Casale Monferrato 2016.